» Giacomo Calvi
In Valle Brembana e specie nelle alte valli, una delle prime attività dell'uomo fu l'estrazione e la lavorazione dei metalli, specialmente del ferro.
Già lo storico e naturalista romano Plinio, comasco d'origine, nel libro XXXIV dell'Historia Naturae parla del metallo chiamato "Cadmia" (la calamina dei minatori) "levato nel territorio dei Bergomati, estrema parte dell'Italia". Il riferimento è quasi certamente alle antiche cave di Dossena, di ben più antica origine.
A Valtorta nel 1297 l'Arcivescovo di Milano istituiva una società con diversi membri anche locali, per sfruttare ogni vena d'argento, di ferro o d'altro metallo, in quanto fin dal 1233 le ferriere di Valtorta pagavano un considerevole censo in argento alla mensa arcivescovile di Milano.
Il capitano Veneto di Bergamo Zuane da Leze, al termine del suo mandato amministrativo, il 21 ottobre 1596, consegnò all'"Ecc.mo Collegio di Venezia", cioè al Senato, un'amplissima relazione socio-economica di Bergamo e del suo territorio. Così veniamo a sapere che le principali miniere si trovavano a S. Brigida sul monte Parissolo, a Fondra in località Pizzo dentro e Pizzo fuori, a Carona in località Valgussera, Carisoli, Cabianca, Vignale e sul monte Sasso, a Branzi sul monte Colle, a Valtorta sul monte Camisolo al confine con la Valsassina, ad Ornica in Val Salmurano e a S. Pietro d'Orzio ai piedi del monte "Porchiera".
Interessante è conoscere dalla relazione come si procedeva all'estrazione del minerale. Le miniere erano coltivate più in estensione che in profondità e seguivano l'andamento del filone del materiale, erano rese più sicure con muri a secco lungo i fianchi e travature alla volta, ma si trattava per lo più di bassi cunicoli dove si lavorava sdraiati o rannicchiati, usando per lo scavo picconi, punte, leve di ferro e talvolta anche calce viva per screpolare le rocce ed il tutto alla luce di lampade ad olio o grasso. Solo nel 17° sec. inizierà l'uso della polvere da sparo. I lavori di miniera si svolgevano in inverno, perché in estate nelle miniere correva troppa acqua e c'era un'umidità eccessiva. I lavori erano quindi interrotti da giugno fino all'autunno, ed in tale periodo i minatori potevano svolgere altre fatiche, come quelle agricole o forestali.
Il minerale cavato era portato fuori dalla miniera in sacchi e posto in una fornace e si riduceva in minute pietre, in polvere per poi portarlo al forno, che così descriveva sempre Giovanni da Lezze: "il forno è un vaso murato, di pietre coperto, fabbricato sopra qualche seriola di acqua che con quella i mantici grandi accendino et mantenghino il foco e con la forza di quello sottoposto si separa il ferro dalla terra e poi indurito si porta alle fusine, a farsi in azzali et a lavorarsi il ferro".
Tale descrizione corrisponde bene al tipo d'altoforno detto appunto "alla bergamasca" che ebbe una grandissima diffusione in tutta Europa. Tale tipo di forno di prima fusione serviva appunto a realizzare la prima operazione del processo metallurgico. Il forno "alla bergamasca" era un forno soffiato, ossia con l'insufflaggio dell'aria, e consisteva in un tino in cui la carica, costituita dal minerale, carbone e fondente, introdotta dall'alto scendeva in controcorrente con l'atmosfera gassosa, prodotta dalla combustione del carbone, riscaldandosi, fondendosi e trasformandosi così in ghisa e ferro temperato in seguito alle reazioni chimiche del particolare processo metallurgico. E in questo processo i nostri "ferrai" divennero maestri, "mastri".
Per i forni e le fucine importante era anche il lavoro dei boscaioli e dei carbonai, che con la legna degli ampi boschi, per lo più comunali, producevano il carbone, con il metodo del "poiat", una catasta di legna coperta di terra e fatta carbonizzare con una lenta combustione e innalzata in ampie spianate nel bosco, dette "aial", termine che entrò a far parte dei toponimi delle varie comunità e delle proprietà terriere.
Se i forni erano, per motivi di trasporto, vicini alle cave e lungo corsi d'acqua ed in vicinanza di boschi che assicuravano la legna per il carbone, le fucine invece sorgevano lungo il Brembo, abbisognando grande quantità d'acqua per azionare i possenti magli e per temperare i metalli ed occupavano un gran numero di lavoratori, fino a trecento per fucina. Sempre dalla relazione di Giovanni da Lezze sappiamo che alla fine del '500 numerose erano in valle le fucine e così a Zogno vi era un grande maglio del ferro, a Stabello una fucina, a Piazza una fucina grossa, a Lenna due fucine grosse e un forno, a Fondra una fucina e un forno, a Branzi due fucine grosse e una piccola, a Carona una fucina grossa e una piccola, in Val Averara, comprendente Averara, S. Brigida, Cusio, Cassiglio e Ornica, cinque fucine grosse, due piccole e un forno, a Valtorta un forno e sette fucine. Della presenza di questa importante attività economica oggi rimane il nome di Fucine o Miniere a frazioni o zone di Ornica, Cassiglio, Piazza, Branzi, Lenna ed altre. Dalle fucine della Valle uscivano balaustre, inferriate, attrezzi per i lavori agricoli e chiodi d'ogni dimensione. Interessante è notare in alcuni casi, sui chiodi a borchia, usati per legare i pesanti portoni d'ingresso e che sono un ornamento di grande effetto, il marchio inciso della fucina. Tutta da riscoprire e documentare è anche la costruzione di armi che, attraverso il Ducato di Milano, erano vendute per lo più a Genova, mercato a quei tempi internazionale, in quanto Venezia privilegiava, perché più economica, la ferrarezza della Stiria regione più vicina.
L'attività mineraria ebbe il massimo sviluppo sotto il dominio veneto, anche per l'esenzione di decime, tasse e dazi assicurata al territorio per ingraziarsi un popolo, che confinando con i Grigioni e Milano, era portato a scegliere la fedeltà anche per interesse più che per politica, e per rispondere alla miseria dell'economia locale con la creazione, per così dire, di una zona franca, anche se presto Venezia porrà per l'apertura di un'attività estrattiva o di lavorazione mineraria, una tassa sulla demanialità, tanto per assicurarsi delle entrate.
Il calo di tali agevolazioni, l'avvento dell'Austria prima, che chiaramente privilegiava i prodotti minerari delle sue zone, e dell'Unità d'Italia misero in crisi tale settore economico e ci fu un continuo restringersi di tale attività, ciclicamente messa anche in crisi dalla mancanza di legne nei boschi sistematicamente tagliati per i forni e le fucine.
L'ultimo forno a spegnersi nell'Alta Valle fu quello di Lenna, dove nel 1880 il sig. Enrico Pozzi di Bergamo fuse gli ultimi rimasugli di siderosio. In quegli anni chiuse anche l'ultima miniera di ferro sul monte Sasso sopra Carona.
Nel XX secolo verranno impostati industrialmente, anche da società straniere, lo sfruttamento e la coltivazione delle miniere di Dossena, in zona Paglio Pignolino e di Oltre il Colle sul Monte Arera, anche se la produzione dei prodotti minerari avverrà fuori della Valle.
Ritornando all'arte del lavorare il metallo, la perizia e la conoscenza della tecnologia soprattutto dei forni fusori alla bergamasca, formarono quella "casta" dei mastri ferrai che fu molto conosciuta ed apprezzata specie fuori della Valle.
Il mastro era il capo di una squadra composta da lavoranti che secondo le varie funzioni dovevano assicurare al meglio l'atti- vità del forno. Della squadra facevano parte pure i boscaioli e i carbonai tanto necessari a fornire il combustibile per l'attività del fondere e del lavorare il metallo.
Il mastro faceva i contratti, per lo più stagionali, con i proprietari dei forni, organizzava il lavoro assegnando ai vari componenti della squadra le funzioni in rapporto alle specifiche competenze ed abilità, promuovendo sulla scala delle funzioni e delle retribuzioni i componenti più capaci della squadra, ed organizzava le emigrazioni anche in paesi lontani, secondo le varie e numerose richieste che a lui giungevano in Valle. Ma alla base di tutto questo stava il riconoscimento da parte di tutti i lavoranti che il mastro era veramente capace ed esperto nell'arte fusoria, nel produrre il miglior metallo in verghe od "azzali", temprato e forte.
I mastri ferrai della Valle Brembana furono famosi fin dal XII e XIII sec. e vennero chiamati da più parti d'Italia e d'Europa fino dalla Polonia, dove diffusero l'arte del fondere e lavorare il metallo nei forni "alla bergamasca".
Documentazioni di tali emigrazioni delle maestranze brembane e delle numerose squadre impegnate nell'attività mineraria e fusoria ne sono state rintracciate e pubblicate in gran numero sia in Italia che all'estero.
I mastri ferrai brembani erano emigrati nelle vicine valli e così troviamo che il notaio Simone Rovelli di Cusio il 10 gennaio 1757 in un atto divisorio tra fratelli assegna a Carlo e Giuseppe Rovelli "una casa e fucina grossa di ferro in Valle Camonica nella terra del Re di Sonico e boscatici da carbonare (boschi per la legna per i forni)".
Cucini Tizzoni e M. Tizzoni nella rivista Bergomum n°3 del 1995 nell'articolo "Li periti maestri: l'emigrazione di maestranze siderurgiche bergamasche della Val Brembana in Italia e in Europa sec. XVI-XVIII", elenca in gran quantità contratti di mastri ferrai di Branzi, Fondra e Baresi fatti in zone della Toscana a Roma, fino nel napoletano.
Felice Riceputi nella sua ultima opera sulla storia della Val Fondra, nel capitolo 5, parlando degli emigranti lavoratori del ferro, ci ricorda mastri ferrai come Domenico Ambrosioni della Gardata di Branzi che aprì tre forni nel Lazio, a Conca, a Monterano e a Sambuca, o come mastro Taddeo Bono Sertorello pure di Branzi che conduceva il Forno Nuovo a Roma e Simone Vitali di Soprafondra che conduceva i forni a Follonica (Gr) e Suvereto (Li) e Bartolomeo Paganoni di Fondra che dirigeva il forno di Massa Marittima.
Con sorpresa nella visita in Valle d'Isère in Francia alla Certosa di Saint-Hugon, nel paese d'Allevard, ho trovato la pubblicazione di Andrè Baroz Marchands et Ferriers du pays d'Allevard ed. Jadis Allevard, dove da pagina 67 si parla diffusamente dei nostri mastri ferrai brembani, nel capitolo proprio intitolato "les bergamasques".
Si riporta documentalmente che fino dal XIV sec. i procedimenti dei forni fusori alla bergamasca erano ampiamente usati, perché i monaci avevano chiamato in valle i mastri della Val Brembana. Qui erano giunti forgerons, ferriers, maitres ferriers, charbonniers, marchands che venivano comunemente chiamati bergamasques o con l'espressione "du pays de Bergame e d'Italie".
Thèrèse Sclaffert nel libro Industrie du fer dans la region d'Allevard au moyen age prova che già nel primo medioevo si fabbricava l'acciaio alla Certosa di Saint-Hugon con il metodo orientale detto alla bergamasca, facendo chiaro riferimento alla tipologia dei forni.
Nei secoli i nostri emigranti là insediatisi, rivitalizzarono fortemente non solo l'economia, ma anche i paesi montani; cambiarono o meglio francesizzarono i loro nomi e con la loro lingua influenzarono il locale "patois", come conferma sempre il Baroz.
Tra gli emigranti fece grande fortuna la famiglia del capitain (capitano) Pomino, divenuta poi Pominà o Pominaz. Pierre Pomino, capitain-capitano e quindi un Cattaneo forse, è riconosciuto maitre ferrier Bergamasque e aveva un suo martinet (maglio) a Cheylas.
Nel pays d'Allevard troviamo pure quali furgerons Pierre Rossi e Laurent et Dominique Vitally, certamente Vitali della Val Brembana.
Nei documenti troviamo attivo in Val d'Isère Antoine Gervasoni, ferrier du pays de Bergame e Marc Olivier Paganoni de la paroisse (parrocchia) de Fondra, il quale fa venire in Francia quale aiutante Jean Bonnet (Bonetti) fils de feu Marc de la paroisse de Bars (Baresi) in Vallembrana.
Tutto questo e tanti altri documenti stanno a dimostrare come i nostri validi mastri ferrai e le squadre di minatori e boscaioli seppero diffondere anche in Europa l'abilità e la capacità di lavorare il ferro.
Epigono forte di tale emigrazione di braccia e di testa è la figura di Cesare Paganoni nato il 3-6-1848 e morto il 13-5-1917 a Moio de' Calvi.
Il Corriere della Sera del 17 maggio 1917 nella pagina della Cronaca Lombarda riportava la notizia: "Dalla Valnegra, nel bergamasco, ci vien segnalato il decesso, a Moio de' Calvi di un industriale, Cesare Paganoni che costituiva un caso tipico in Italia di un uomo fattosi da sé. E ciò non pel fatto d'aver potuto da misera condizione salire ad una posizione invidiabile, ma perché la sua ascensione seppe cominciarla quando era già trentottenne e fino allora non aveva fatto che il carbonaio nel proprio paesello. A quest'età trovò lena per completare certi studi tecnici coltivati per proprio gusto, lanciandosi con tale vigore nel campo della siderurgia e della fonderia dell'acciaio, da essere disputato dalle maggiori fabbriche per la singolare capacità, mentre molti ingegneri tecnici lo consultavano per le più difficili operazioni di fonderia dell'acciaio. Finì per questa sua specialità col prendersi il soprannome di Pontefice dell'arte siderurgica".
Anche L'Eco di Bergamo sempre del 17 maggio 1917 riportava la notizia della morte di Cesare Paganoni "rinomatissimo artista nella lavorazione dell'acciaio, industria che da umile origine lo fece assurgere ad una elevata posizione".
Sul mensile L'Alta Valle Brembana del 26 maggio 1917, il direttore don Boni nel ricordare la morte di Cesare Paganoni sottolineava "la forte partecipazione degli operai delle Acciaierie Italiane di Bolzaneto, ove il Paganoni era assai stimato come capo per la sua rara competenza in materia di fusione o colo di acciaio, e di numerosissimi rappresentanti delle più grandi ferriere ed acciaierie italiane".
Singolare è dunque questa figura di grande tecnico. Nato a Moio de' Calvi il 3 giugno 1848, per trentotto anni visse nel suo paese svolgendo la faticosa attività di boscaiolo. Nel 1886 emigrò a Savona per continuare il suo lavoro, ma, entrato negli Opifici Liguri della lavorazione e fonderia dell'acciaio, dimostrò grande capacità ed interesse, tanto che nel 1887 l'azienda lo prescelse tra tutte le maestranze e lo inviò in Germania per studiare i vari processi di lavorazione dell'acciaio. Tornato in Italia rivelò la sua grande capacità tecnica dell'arte fusoria tanto che unanimemente venne riconosciuto con il soprannome di "Pontefice dell'arte siderurgica italiana".
Storie andate di un'emigrazione brembana che sempre si seppe distinguere e che purtroppo è stata anche presto dimenticata.
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da Giacomo Calvi, Quaderni Brembani 3,
Centro Storico Culturale Valle Brembana
2004, pp. 74...78.
Aggiornato il 12 Marzo 2015